Uva da tavola, bisogna scommettere sulle nuove varietà

Uva
Da prima produttrice ed esportatrice al mondo di uva da tavola, nel giro di quindici anni l’Italia è scesa all’ottavo posto per volumi prodotti e al terzo per spedizioni oltreconfine. Le superfici coltivate si sono ridotte, mentre a livello globale il consumo è cresciuto. Le cause di questo declino sono molteplici, ma la resistenza degli imprenditori agricoli italiani all’introduzione di nuove cultivar è considerata da più voci la principale. E proprio di come fare per rilanciare questo importante comparto della frutticoltura made in Italy si parlerà durante l’ottavo simposio internazionale dell’uva da tavola in programma dall’1 al 7 ottobre in Puglia e Sicilia, le due regioni italiane più vocate a questa produzione

Rinnovare gli impianti introducendo varietà apirene, più resistenti alle malattie tipiche della vite e capaci di ampliare il calendario di commercializzazione. Questo il messaggio più forte che sarà lanciato durante le sette giornate dell’ottavo simposio internazionale dell’uva da tavola che si terrà tra Palermo, Foggia e Bari dall’1 al 7 ottobre prossimo, alternando sessioni scientifiche a visite tecniche in campo e una tavola rotonda internazionale. Si parlerà anche di biologia e fisiologia della produzione, di tecniche di coltivazione innovative, aggiornamento delle pratiche post raccolta, risorse genetiche e innovazioni nella protezione della vite, ma la capacità di intercettare le richieste dei mercati internazionali sarà al centro delle discussioni.

L’evoluzione del mercato dall'inizio del nuovo millennio
Dai poco più di 15 milioni di tonnellate del 2000 ai circa 27 milioni del 2014, la produzione mondiale di uva da tavola è quasi raddoppiata nel giro di 15 anni e con essa i consumi. Nello stesso periodo in Italia la produzione è diminuita di oltre un quarto, con una superficie investita di poco inferiore ai 51mila ettari, sesta tra le colture legnose agrarie dopo olivo, uva da vino, arancio, nocciolo e mandorlo. Se a inizio secolo il nostro Paese era il primo produttore ed esportatore al mondo, oggi è ottavo per volumi prodotti e terzo per quantità commercializzate all’estero. Cina, India, Turchia, Egitto e Stati Uniti sono oggi i principali produttori, mentre Cile e Usa ci hanno scavalcati nell’export.

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La causa principale di questa “ritirata” dall’uva da tavola degli imprenditori agricoli italiani è dovuta alla concorrenza internazionale che è cresciuta sempre di più nel corso degli anni e alla difficoltà nel soddisfare le richieste dei consumatori stranieri. Ad esempio, tra i Paesi Europei, Francia, Germania e Svizzera chiedono prevalentemente uve dal colore giallo oro, con bacche di dimensione medio-grande e aromatiche (in particolare ad aroma moscato), mentre Inghilterra, Belgio e altri Paesi del Nord Europa chiedono principalmente uve apirene, con acino di media grandezza, buccia di colore crema, rosso o nero (in funzione della varietà) e gusto neutro. Le aziende, e le relative strutture commerciali, devono quindi cercare i mercati interessati alla propria produzione o, viceversa, pianificare la produzione in funzione dei mercati cui intendono rivolgersi nel medio e lungo termine, procedendo a un’attenta scelta delle varietà da coltivare. In quest’ottica, vanno seguite con interesse le proposte che la ricerca Italiana sta fornendo in questi ultimi anni per conferire dinamicità al comparto, inclusa la coltivazione fuori suolo.
In Italia sono ancora molto forti le varietà classiche come Italia, Cardinal, Victoria e Black, mentre le apirene faticano ad affermarsi anche perché le rese sono più basse rispetto alle cultivar tradizionali.

Rispetto al 2000, l’Italia ha oggi ridotto del 28% le proprie esportazioni, nonostante costituiscano comunque il 43% della produzione nazionale. Le principali cause del calo della quantità di uva italiana esportata sono l’embargo russo e la perdita di competitività commerciale rispetto a Egitto, Turchia, India e Cina. Inoltre, mentre le esportazioni italiane sono concentrate prevalentemente in Europa, quelle cilene sono più diversificate, orientandosi in buona misura, oltre che verso l’Europa, anche verso Stati Uniti, Cina, Canada, Corea e Messico.
Inoltre, in questi ultimi anni l’uva da tavola è diventata un prodotto destagionalizzato. Sono cambiate le dinamiche del mercato internazionale: i Paesi europei, maggiori protagonisti negli anni ’60, hanno ridotto sensibilmente le loro quote, segnando una forte flessione nel corso degli anni ’80. La crescente liberalizzazione dei mercati ha incrementato la competitività dei Paesi emergenti che pian piano hanno migliorato la qualità del loro prodotto, l’efficienza delle catene distributive, dei sistemi di conservazione e trasporto. Solo gli Stati Uniti hanno mantenuto nel tempo una quota di mercato costante. Nell’emisfero Nord i nuovi concorrenti sono Turchia, Cina, Messico, India ed Egitto, mentre nell’emisfero Sud oltre a Cile e Sud Africa, i Paesi emergenti sono Argentina, Brasile e Perù. In particolare quest’ultimo fa registrare un sensibile incremento delle produzioni e delle esportazioni e per soddisfare le esigenze diversificate dei mercati mondiali, coltiva oltre 40 varietà.

uvaI nodi da sciogliere per riportare in alto l’uva da tavola italiana
L’inerzia varietale che ha contraddistinto la produzione italiana nel ventennio 1980-2000 è considerata la causa principale della perdita di competitività sui mercati globali. Per troppo tempo la coltivazione della cultivar Italia ha interessato oltre l’80% della superficie nazionale e la diffusione delle varietà apirene è stata scarsa e lenta. Queste ultime, anche dopo l’accelerazione dell’ultimo quinquennio, coprono circa il 15% della superficie. In Paesi come Cile, Australia, Sud Africa e Stati Uniti, che esportano oltre il 95% della loro produzione, l’incidenza delle varietà apirene è superiore al 90% della produzione interna. Se a questo si aggiungono la carenza di strategie “market oriented”, fortemente connessa alla scarsa sinergia tra i diversi attori dell’intera filiera produttiva, la frammentazione aziendale tipica del nostro Paese e gli elevati costi di produzione, si capisce perché gli imprenditori hanno via via scelto altre colture.

Ecco perché durante la settimana del simposio si ribadirà come l’innovazione varietale sia un elemento imprescindibile per ridare vigore a un comparto che può anche contare su solidi punti di forza come la spiccata vocazione delle zone tipiche di produzione (Puglia, Sicilia, Basilicata) geograficamente vicini tra loro e accomunati dalla tipologia climatica. E poi gli operatori sono altamente specializzati e il prodotto può contare sull’immagine positiva del made in Italy sui mercati internazionali. Anche dal punto di vista della sostenibilità la filiera italiana è all’avanguardia.
C’è poi da considerare la lunga attività di ricerca e sperimentazione svolta sulle tipologie d’impianto in ambiente protetto per anticipare o ritardare la maturazione e la raccolta delle uve, seguita dalla più recente introduzione della coltivazione fuori suolo, che hanno consentito di disporre di un calendario di commercializzazione di sette mesi: da maggio a dicembre.
Quindi occorre accelerare sul rinnovamento varietale, avviare programmi nazionali di di miglioramento genetico per l’ottenimento di nuove varietà apirene italiane e aumentare la sinergia tra i diversi attori della filiera e il livello di aggregazione nel settore che, oggi, è il più basso (6,1%) tra i principali competitor.

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Uva da tavola, bisogna scommettere sulle nuove varietà - Ultima modifica: 2017-07-27T14:52:56+02:00 da Simone Martarello

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